L’IMPORTANZA DELLA CONVIVIALITÀ NEL LAVORO DI COMUNITÀ

Racconto di esperienze significative (a cura di Barbara Venturello)

“Che buono questo riso, come l’hai cucinato?”

“Ottimo sugo, non l’avevo mai mangiato prima, come si chiama? Mi insegni come si fa?”

“Nella vostra famiglia come cucinate la caponata”?

“Pizza senza pomodoro? Non chiamarla pizza, ti prego!”.

Nella vita di ogni persona, prima o poi capita di condividere il pranzo o la cena con qualcuno e scoprire sapori e usanze differenti rispetto a quelli abituali.

Per esempio, esistono almeno cinque modi di cucinare il riso, una infinità di varianti di tanti piatti tipici regionali e svariate abitudini di accostamento dei sapori. 

Nel lavoro sociale, l’inclusione spesso avviene intorno alla tavola apparecchiata; infatti il mangiare insieme è dà sempre un gesto intimo, di comunione e vicinanza che accompagna l’uomo nel corso delle ere. Anche nell’ambito di progetti di accoglienza di persone straniere, spesso lo scambio di competenze culinarie è metafora di incontro, condivisione e socialità.

Così come il cibo, anche la collaborazione per la realizzazione di un lavoro pratico, è da sempre un connettore sociale. Si pensi per esempio, alle persone che, unite dalla sventura di aver subito una calamità naturale, collaborano per il risanamento delle case danneggiate; agli interventi di manutenzione di giardini e panchine in collaborazione con enti di volontariato nei contesti di lavori di pubblica utilità; oppure, alle numerose esperienze di orti sociali in realtà di cohousing .

Sarebbe però riduttivo pensare al lavoro pratico solo in questi termini. Secondo i principi espressi dalla Costituzione italiana, il lavoro si può intendere come “qualsiasi attività umana che concorre al progresso materiale e spirituale della società” quindi, per logica, il lavoro è l’espressione attraverso cui la nostra specie trasforma il mondo.

In quest’ottica, cucinare insieme o mettere in comunione del cibo con lo scopo di condividere una parte di noi, è un lavoro il cui esito comunitario può essere sorprendente!

Chi si occupa del lavoro sociale di comunità, non può quindi esimersi da considerare la convivialità come elemento fondamentale nei processi di cementificazione del senso di appartenenza. In generale, essa è centrale per la costruzione delle relazioni umane.

Le pagine che seguono descrivono due esperienze  significative collegate tra loro. La prima è stata generativa della seconda. Il fulcro di entrambe è la convivialità.

IL RACCONTO SOGGETTIVO DI UN INCONTRO IMPORTANTE

Nel dicembre del 2015 facevo parte di un gruppo informale di cittadini che si stava formando sul metodo pedagogico di Paulo Freire in quanto era interessato a sviluppare, dal basso, azioni di rigenerazione urbana nel proprio comune di residenza. In una sera di dicembre, l’ideatore dell’iniziativa, colui che aveva dato il via alla vita del gruppo, ci fece un regalo che per me fu molto importante. Andammo a cena da una persona speciale: la signora Edvige.

Ecco come andò…

Ci incontrammo ad una certa ora in un certo luogo e partimmo. Ognuno di noi aveva portato un piatto pronto, cucinato nella propria abitazione. Dopo circa un’ora di viaggio, arrivammo, per la prima volta, a Casale Monferrato e ci recammo a casa della signora Edvige. Una donna minuta, anziana, ricca di cultura, esperienze e ricordi. Nella sua confortevole abitazione trovammo (inspiegabilmente) riferimenti al lavoro di Paulo Freire[1] e di Gino Piccio[2].

Condividendo il cibo, assaporando le pietanze condivise e godendo di quel contesto casalingo, piccolo ed accogliente, le raccontammo  l’esistenza del nostro gruppo e i presupposti che lo animavano. La donna, dopo averci ascoltato, ci svelò che lei stessa, insieme al suo vicino di casa Gianni (che ci presentò dopo cena) e a molti altri, fece parte, per parecchio tempo, di un gruppo di animazione sociale che, insieme a Gino Piccio realizzò interventi di educazione comunitaria e sviluppo di comunità con il metodo pedagogico di Paulo Freire in Irpinia (dopo il terremoto) e in molte zone rurali del Piemonte tra gli anni ’60 e ’90 del novecento.

Ancor oggi a casa sua, si trovano dei materiali inediti del grosso lavoro di ricerca sociale e relativi interventi condotti in seno al gruppo di Cascina G. ad Ottiglio che per anni è stato centro culturale e abitazione di Gino Piccio. Edvige lavorò anche a Verrua Savoia tra il 1978 e il 1980 e fu parte integrante del processo di costruzione del “senso di comunità” di quell’area. Un’iniziativa che, fra le altre cose, è ricordata per aver portato all’installazione di un telefono in ogni cascina dove vivevano persone anziane.

I racconti di Edvige erano animati da una forte passione per la vita e fiducia nell’uomo. Trascendendo le grandi dichiarazioni teologiche, la signora Edvige ci mostrò il suo modo di vivere la fede. Si tratta di una fede riposta nei piccoli miracoli quotidiani che si sperimentano nel far parte di se stessi agli altri dando un nome al mondo che, nella pedagogia di Freire vuol dire “essere con”.

La “serata a sorpresa”, non solo permise al nostro gruppo per la prima volta, di “raccontare la nostra storia” (presupposto fondamentale di cementificazione dello spirito di appartenenza al gruppo), di mangiare insieme in allegria e di conoscere delle persone speciali, ma fu anche un momento importante di lavoro perché uscimmo da quell’incontro avendo “respirato” i presupposti di Freire, entusiasti di sentirci parte di un qualcosa di più ampio e grande di noi, di un qualcosa che, in alcuni posti, in alcuni tempi, ha fatto la differenza concreta per molte comunità e di conseguenza per tantissime persone.

Quell’indimenticabile primo incontro ci procurò  un importante contatto riguardante il lavoro di ricerca che stavamo conducendo: Edvige propose di invitarci nuovamente da lei, una domenica pomeriggio, per presentarci alcune persone di Verrua Savoia (TO) che avevano fatto parte del “gruppo ausiliario” nel lavoro svolto tra il 1978 e il 1980. A loro avremmo potuto sottoporre le nostre domande e lei avrebbe con piacere riabbracciato i suoi amici (dopo tanti anni). Il proficuo incontro si realizzò a casa del suo vicino di casa Gianni e si concluse con il renderci partecipi di una canzone che avevano ideato durante il lavoro in Verrua Savoia e con una cena conviviale .

La condivisione del cibo, l’ospitalità e il far parte delle proprie esperienze agli altri sono stati tutti elementi fondamentali nelle attività di quel gruppo di cittadiniche, nei primi mesi dell’anno successivo, organizzò tre serate pubbliche su tematiche sentite importanti:

– l’ambiente;

– l’amministrazione pubblica che si fa comunità;

– la partecipazione nella vita condominiale.

Quali le conseguenze di quell’esempio conviviale?

Da quelle serate e dalle azioni successive del gruppo, alcuni dei cittadini che ne facevano parte, decisero di costituire un’associazione di promozione sociale, aprendo, in un quartiere di quella città, il primo spazio socio culturale che nell’Ottobre del 2019 ha compiuto un anno di vita. L’associazione Marabù ETS APS, il cui progetto pilota è il noto spazio socio culturale “Il Posto Buono San Marco” che attualmente si trova ad Asti in Via San Marco n.18.

IL PRANZO CONDIVISO

Inoltre, dalla messa in pratica dei principi appresi vivendo le esperienze conviviali fatte a casa di Edvige, il gruppo ha generato in quegli spazi, la sua prima azione comunitaria concreta: il pranzo condiviso.

(Dall’analisi del territorio fatta attraverso i profili di comunità[3], in particolare da quello demografico, è emerso che la popolazione del quartiere è prevalentemente composta da persone anziane e da famiglie con figli in età scolare.

Il pranzo condiviso è nato con la partecipazione delle famiglie residenti, alle quali si sono messe a disposizione le sale del locale con l’obiettivo di costruire un processo partecipativo dal basso per rispondere all’esigenza di contrasto delle solitudini involontarie e alla difficoltà di conciliazione dei tempi di lavoro e famiglia di alcune donne con figli tra i 9 e gli 12 anni.

Come funziona?

(Una volta a settimana (il mercoledì), i locali dello spazio socio culturale sono a disposizione dei cittadini per la condivisione del pranzo. Ognuno porta una pietanza. La regola pratica ed efficace è che si porta quello che si mangerebbe quel giorno se si fosse a casa da soli. Di volta in volta, non occorre sapere in quanti parteciperanno. Si arriva, si imbandisce la tavola e si poggiano i cibi su di essa. Verso le 13:30, quando anche i bambini sono tornati da scuola, si inizia a mangiare avendo a disposizione tutti i cibi portati dai partecipanti del pranzo condiviso.

Quali i primi risultati comunitari di questa attività?

Nell’ultimo anno il pranzo condiviso ha fatto sì che persone “amici di amici” si conoscessero tra loro e decidessero di frequentarsi al di là del pranzo condiviso e degli spazi collettivi de “Il Posto Buono San Marco”.

Per esempio è stata organizzata una “serata pizza” in una nota pizzeria della città.

Alcune volte, durante l’inverno, i partecipanti al pranzo condiviso hanno ospitato persone senza fissa dimora che “passando di lì” hanno potuto trovare compagnia, un piatto caldo e una tazza di caffè o di the.

Questa attività, per chi dopo il pasto non deve rientrare al lavoro, ha assunto i connotati dei pranzi della domenica in famiglia.

In pratica alcuni rimangono a chiacchierare fino a pomeriggio inoltrato mentre i bambini giocano, disegnano in un’altra stanza o fanno i cosiddetti “compiti condivisi”.

Il momento dei compiti diventa attività comunitaria: gli adulti presenti aiutano i bimbi a risolvere quesiti di matematica, ripassare geografia, comprendere meglio un concetto. Spesso raccontano i loro ricordi di scuola.

Durante o dopo il pranzo condiviso, ci sono state occasioni in cui qualcuno ha fatto parte ad altri di esigenze specifiche personali.

Sono stati socializzati problemi importanti come: disoccupazione, familiari ammalati, problemi di coppia, eccetera. Il tutto in modo informale, spontaneo ma in un ambiente “protetto” e rispettoso della privacy.

La scorsa estate, proprio in risposta ad un problema emerso, alcuni cittadini hanno costituito la rete temporanea di fronteggiamento di una famiglia che ha affrontato la dura lotta contro il cancro di uno dei suoi membri.

Alcune associazioni di Asti o della provincia, si sono conosciute proprio perché i loro presidenti o membri hanno deciso di partecipare al pranzo condiviso. Oggi stanno iniziando ad ipotizzare collaborazioni o ideazioni di nuovi progetti sociali unendosi di fatto alla mission dell’associazione Marabù.

Quali le prospettive future?

Attraverso i pranzi condivisi si sta vivendo un processo pedagogico che potrebbe condurre alla costituzione di un gruppo locale di cittadini disposti a dedicare qualche ora del proprio tempo, per l’attivazione di un processo partecipativo generale, in grado di portare benefici vari in seno al quartiere in quanto generati da persone del quartiere stesso.

L’implementazione dei beni relazionali potrebbe veder nascere una Banca del Tempo.

La condivisione di esigenze lavorative, potrebbe generare nuove prospettive di occupazione per qualche persona che fa fatica a reinserirsi nel mondo del lavoro.

Potrebbe essere implementato lo Sportello psico sociale oggi esistente ma attivato presso il Posto Buono solo su richiesta e specifico appuntamento.

Come fare per saperne di più?

Per chi volesse ricevere altre informazioni o partecipare, può contattare l’associazione Marabù scrivendo un messaggio pvt alla pagina Facebook (il posto buono san marco), inviando una mail (info@ilpostobuono.it) oppure passando in via San Marco nella giornata del mercoledì.



[1] Paulo Freire (1921 – 1997) è stato un pedagogista brasiliano e un importante teorico dell’educazione.

[2] Gino Piccio (1920 – 2014) prete operaio è stato per molti anni il più autorevole esperto italiano del metodo di coscientizzazione di Paulo Freire

[3] È un’attività di conoscenza dell’area tipica della ricerca azione partecipata. Per approfondimenti cfr. Martini E.R., Torti A., Fare lavoro di comunità – riferimenti teorici e strumenti operativi, Carocci, Roma, 2003